sabato 25 agosto 2012

Polpette di trippa.


Il mio amico macellaio mi ha fornito il midollo d’osso di manzo che ho utilizzato nella preparazione del risotto alla milanese visto in un post precedente; siccome ne era avanzato un poco, ho iniziato a sfogliare il libro di Pellegrino ArtusiLa scienza della cucinae l’arte di mangiar bene” alla ricerca di qualche ricetta sfiziosa che prevedesse l’impiego, tra l’altro, del midollo.

Pellegrino Artusi

L’ho trovata!! Ricetta n° 334 “polpette di trippa”.
Questo libro è incredibile, ogni volta che lo sfoglio trovo sempre degli ottimi spunti e, nonostante gli oltre 120 anni dalla sua pubblicazione (1891), nella sua essenzialità, è attualissimo.
Questa ricetta, in realtà, ha quasi 320 anni; infatti l’Artusi dice: “Questo piatto, tolto da un trattato di cucina del 1694…(*)
Io le ho provate e le ho trovate ottime; sia nella versione indicata da Artusi, sia nella versione originale dell’autore (che prevedeva anche uvetta e pinoli).
Scrivo la ricetta così come è riportata nel libro, senza cambiare una virgola.

334. POLPETTE DI TRIPPA
Questo piatto, tolto da un trattato di cucina del 1694, vi parrà strano e il solo nome di trippa vi renderà titubanti a provarlo; ma pure, sebbene di carattere triviale, coi condimenti che lo aiutano, riesce gradito e non grave allo stomaco.

Polpette di trippa

Ingredienti (per 4 persone)
Trippa lessata, grammi 350.
prosciutto più magro che grasso, grammi 100.
Parmigiano grattato, grammi 30.
Midollo di bue, grammi 20.
Uova, n. 2.
Un buon pizzico di prezzemolo.
Odore di spezie o di noce moscata.
Pappa non liquida, fatta di pane bagnato col brodo o col latte, due cucchiaiate.

Preparazione.
Tritate con la lunetta la trippa quanto più potete finissima. Fate lo stesso del prosciutto, del midollo e del prezzemolo, aggiungete le uova, il resto, un poco di sale e mescolate.
Con questo composto formate 12 o 13 polpette, che potranno bastare per quattro persone, infarinatele bene e friggetele nell'olio o nel lardo.
Ora fate un battutino con un quarto scarso di cipolla di mediocre grossezza e mettetelo in una teglia proporzionata con gr. 60 di burro e, colorito che sia, collocateci le polpette, annaffiatele dopo poco con sugo di pomodoro o conserva sciolta nel brodo, copritele e fatele bollire adagio una diecina di minuti, rivoltandole; quindi mandatele in tavola con un po' del loro intinto e spolverizzate di parmigiano.
L'autore aggiunge al composto uva passolina e pinoli, ma se ne può fare a meno.

(*) Ho cercato di scoprire chi fosse l'autore di questo trattato di cucina del 1694 o, almeno la zona di  provenienza della ricetta, senza risultato.

venerdì 24 agosto 2012

Risotto alla milanese.


Oggi voglio proporre un classico della cucina Lombarda: il risotto alla milanese.

Duomo di Milano

Molti credono che il risotto alla milanese sia il semplice, banale risotto “giallo” o allo zafferano; lo zafferano c’è ma l’ingrediente che, a parer mio, fa la differenza è il midollo di bue che fornisce quel gusto che rende questo piatto riconoscibile.
L’impiego del midollo di bue, risultava abbastanza frequente in passato; utilizzato, con o senza burro, come fonte economica di sostanza grassa, inizialmente dai contadini ma di seguito anche nelle città 
La leggenda afferma che la nascita del risotto alla milanese risale al 1574, quando la vita della città era polarizzata intorno alla fabbrica del Duomo, allora in costruzione. Fra i maestri vetrai c'era un certo Valerio di Fiandra, incaricato di terminare la vetrata con gli episodi della vita di Sant'Elena. Quest'artista era molto sapiente nel dosare e mescolare i colori; il suo segreto consisteva in un pizzico di zafferano che egli dosava con oculatezza in ogni combinazione, ottenendo effetti smaglianti. Maestro Valerio era anche un conosciuto mangiatore e bevitore; come tale, frequentava assiduamente il Bettolino de Preti, dove si smerciava il buon vino. Nel Bettolino veniva spesso la sua bellissima figliola a cercarlo. La giovane, un giorno, incontrò qui il figlio del trattore e se ne innamorò. I due si sposarono nel settembre del 1574. In occasione del pranzo di nozze, l'aiutante di Maestro Valerio lasciò cadere nel risotto una presa di zafferano. Si dice che il suo fu un gesto di gelosia per boicottare le nozze dei giovani sposi perché anche il garzone era innamorato della ragazza. Ma ottenne un risultato contrario. Tutti i commensali, con un po' di stupore e diffidenza di fronte alla nuova portata, cominciarono a servirsi e alla fine si levò un coro di lodi entusiastiche che consacrò la trovata del garzone. Il gesto di ripicca si tramutò così in un successo di gusto e bontà: era nato il classico risotto giallo. 
In realtà fonti storiche più attendibili ci dicono che fino al 1700 non si parla di un risotto cucinato in questo modo e la tecnica predominante sembra essere la lessatura in acqua.

L'arte di mangiar bene - Pellegrino Artusi

Il risotto alla milanese viene citato anche nel famoso trattato di cucina di Pellegrino Artusi “La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene” (ricetta n°79). L’Artusi lo definisce: “…complicato e grave allo stomaco…”, infatti non è un piatto propriamente dietetico. 
La ricetta di Pellegrino Artusi, descrive la semplicità della cucina regionale alla fine del XIX secolo (il libro fu pubblicato nel 1891).
La tradizione vuole che questo risotto venga preparato e servito con gli ossibuchi, rigorosamente, di vitello cucinati con la “gremolada”, un trito di aglio, prezzemolo, buccia di limone e, in un periodo più recente, arricchita con dei filetti di acciuga.
Rivedremo questo post fra 2-3 mesi, quando le temperature più fresche, permetteranno di assaporare in pieno questo gustoso piatto milanese.

Risotto alla milanese

sabato 18 agosto 2012

Rotolo di tacchino farcito.

I tacchini (genere Meleagris), originari dell'America del Nord, sono gallinacei snelli, con zampe lunghe ed ali e coda corte. Hanno la testa e la parte superiore del collo bitorzolute, e dalla mascella superiore del becco breve, robusto ed arcuato, pende un'escrescenza carnosa ed erigibile di forma conica. I loro piedi sono alti e provvisti di lunghe dita, le ali sono molto arrotondate e la coda, composta di diciotto penne larghe ed erettili, ha forma tondeggiante. Una singolare particolarità del piumaggio è data dal fatto che alcune penne della parte anteriore del petto hanno l'aspetto e la consistenza di setole sporgenti.

Tacchino

Diffusi in libertà nell'America settentrionale e centrale fino all'istmo di Panama, i tacchini presentano, quanto all'indole ed ai costumi, tratti generali assolutamente comuni.
I boschi degli stati dell'Ohio, del Kentucky, dell'Illinois, dell'Arkansas, del Tennessee e dell'Alabama ospitano ancor oggi un gran numero di tacchini, abbastanza comuni anche in Canada, negli stati meridionali e nelle regioni centrali americane.
Il tacchino non ha esigenze specifiche in fatto di dieta, si nutre di erbe e verdure di ogni sorta, di cereali, frutta, insetti e piccole locuste; sembra avere una spiccata preferenza per alcuni tipi di noci e di bacche.
Il tacchino goglotta, quindi il suo verso è un goglottio.
Alcuni ritengono che, con tutta probabilità, Cristoforo Colombo sia stato il primo europeo a venire a conoscenza di questo animale. Esistono documenti ufficiali che attestano che nel 1511 il tacchino fu portato in Spagna; da qui esso si diffuse in tutta Europa.
Curiosa l'origine delle varie denominazioni nelle varie lingue: l'inglese turkey sembra derivare dal fatto che furono i mercanti turchi a introdurlo in Inghilterra; la vecchia denominazione francese, coq d'Inde, (gallo d'India) era probabilmente dovuta al fatto che inizialmente si pensava che Colombo, il suo "scopritore" europeo, fosse sbarcato nelle Indie; l'italiano tacchino, secondo alcuni, potrebbe avere origine onomatopeica.
Nei paesi europei, il tacchino cucinato intero è generalmente una pietanza "natalizia" mentre negli Stati Uniti è il piatto immancabile nel quarto giovedì del mese di novembre, il Giorno del Ringraziamento (Thanksgiving Day), una delle festività più importanti di quel Paese.
Il tacchino ha un ruolo importante nell'alimentazione odierna (attualmente la produzione di carni avicole in Italia supera percentualmente sia quelle bovine sia quelle suine). La carne di tacchino ha un costo inferiore a quella di vitello e ha un notevole valore nutritivo. In particolare, c'è più ferro che nelle carni bovine e una maggiore quantità di proteine; inoltre la carne del tacchino è abbastanza magra (per averla magrissima occorre togliere la pelle), molto tenera e facilmente digeribile.

Tacchino

I tacchini reperibili sul mercato odierno non sono più appartenenti a una razza ben precisa, ma derivano da particolari tipi di incrocio che hanno lo scopo di sviluppare al meglio determinate caratteristiche. In linea generale, si può affermare che in commercio vi sono tre tipologie di tacchino: leggera, media e pesante.
Oggi, i produttori avicoli italiani si impegnano nella ricerca di tecniche di allevamento sempre più avanzate che garantiscano una migliore qualità delle carni sia riguardo alla sapidità che alla sicurezza igienico-sanitaria, e sempre nel rispetto del benessere degli animali. I mangimi equilibrati e altamente selezionati, le strutture di produzione controllate dall’origine fino alla distribuzione e la cura costante del benessere e della salute degli animali sono testimoniati dai valori nutrizionali delle carni bianche e delle uova che portiamo oggi sulle nostre tavole: alimenti sani, ricchi di proteine ad alto valore biologico e di nutrienti importanti, ma anche con basso contenuto di grassi, frutto di una continua ricerca nel segno della qualità e della garanzia del consumatore.
In Italia la carne di tacchino è spesso dimenticata o acquistata esclusivamente per la sua estrema convenienza. Un vero peccato, viste le prerogative che possiede. Se cucinata bene è una carne saporita, tenera e molto salutare.

venerdì 17 agosto 2012

Risotto con gamberetti e peperoni.

Il gambero è un crostaceo decapode ed ha una lunghezza compresa tra i 7 ed i 20 cm (al di sotto dei 10 cm viene denominato “gamberetto”).
I gamberi possono essere suddivisi in varietà considerando il loro habitat.
 
Gambero
Figura 1-Gambero di fiume
Ci sono quindi i gamberi di fiume, che vivono in acque dolci: questa specie viene chiamata Astacus astacus (famiglia degli asticidi) ed ha un aspetto molto simile a quello delle aragoste.
Le sue dimensioni sono molto variabili, infatti possono essere lunghi dai 2 ai 40 cm ed una delle tre paia di zampe che ha, comprende due grosse chele, utilizzate sia per cacciare prede che per scavare gallerie. Anche le altre quattro zampe sono fornite di chele, ma dalla dimensioni molto più ridotte.
I gamberi di mare invece sono denominati Homarus gammarus e si distinguono da quelli di fiume sia per la morfologia che per le dimensioni, maggiori rispetto a quello di fiume ed ha chele più poderose.
Nel Mediterraneo possiamo trovare l'Aristeus antennatus, gambero che deve il suo nome al figlio di Apollo, L'unica specie d'oceano conosciuta è l'Homarus americanus che vive nei pressi dell'America del Nord.
Con il termine gamberetto si intende invece un sottogruppo dei gamberi che si differenziano da questi per le loro dimensioni inferiori.
Inoltre a differenza dei gamberi, i gamberetti non hanno le chele e sono lievemente schiacciati lateralmente; di colore trasparente, con sfumature grigie-marroni, il gamberetto si sposta rapidamente attraverso la contrazione dei muscoli addominali-dorsali.
I gamberetti possono essere sia di mare che di fiume; quelli più diffusi nei mari europei sono i Palaemon serratus e rispettano le caratteristiche appena descritte.

Gamberetto
Figura 2-Gamberetto
Per i gamberetti oceanici bisogna invece precisare che non hanno affatto dimensioni ridotte: basti pensare che possono superare i 60 cm di lunghezza.

Formaggio fai da te (2) - Cosa serve.

Fare il formaggio in casa potrebbe sembrare difficile ma, in realtà, è più facile di quanto si possa immaginare. 
Cosa occorre:
  • Latte di buona qualità;
  • Innesto batterico;
  • il caglio, che può essere animale o vegetale (in un secondo tempo vedremo come fare il formaggio con il caglio vegetale);
  • Un minimo di attrezzatura. All’inizio si può procedere con quello che normalmente è già presente in una cucina; poi, se la cosa ci appassiona, con una piccola spesa, si acquista quel poco di attrezzatura per fare le cose un po’ “meglio”;
  • un poco di pazienza;
  • tanta passione e soprattutto non farsi scoraggiare da qualche fallimento iniziale.
Ma andiamo con ordine e iniziamo con il latte.
Uno dei problemi principali nella produzione casalinga del formaggio è il reperimento di latte di qualità.

Latte di vacca (vaccino).
In molte regioni italiane, soprattutto al nord ed in Emilia-Romagna, è possibile acquistare latte fresco appena munto in molte aziende agricole, mentre in altre zone d'Italia l'approvvigionamento di latte fresco è un po’ più complicato.

Distributore di latte fresco

Da qualche anno però, in molte città d’Italia, hanno iniziato a comparire i distributori di latte “crudo” alla spina. E' più ricco di proteine e vitamine rispetto a quello pastorizzato, più saporito del latte confezionato e ha un costo contenuto (mediamente 1 euro al litro). L'importante è conservarlo nel modo giusto per evitare la proliferazione di batteri.
Il latte crudo è chiamato in questo modo perché non subisce il trattamento di pastorizzazione. Questo processo, inventato dal chimico-biologo Louis Pasteur, consiste nel portare il latte a una temperatura intorno ai 70 gradi centigradi per non più di 15 secondi. Un periodo di tempo sufficiente ad eliminare quasi tutti i batteri patogeni, oltre ad alcune proprietà nutritive. Il latte crudo invece, una volta munto, viene immediatamente portato alla temperatura di 4 gradi e mantenuto a tale temperatura anche nei distributori alla spina.
Il latte di vacca o vaccino è quello più povero di proteine fra quelli utilizzati per la produzione casearia, ed il suo gusto non ha particolari aromi come invece il latte di capra o anche di pecora. Il latte di vacca viene dunque utilizzato per formaggi dal gusto solitamente più morbido e delicato, che spesso hanno bisogno di lunghe stagionature per esprimere appieno i sapori e gli odori caratteristici.
Il latte di pecora.
Il latte di pecora è invece molto ricco in proteine, cosa che lo rende particolarmente adatto alla produzione del formaggio permettendo rese migliori. La sua caratteristica olfattiva è data da particolari acidi grassi volatili, che danno un gusto caratteristico al formaggio di pecora.
Il latte di capra.
Fra tutti, i latte di capra è quello che meno si presta alla produzione di formaggio, nonostante tutti conosciamo ed apprezziamo molti prodotti caseari a base di latte caprino. Il problema principale del latte di capra è il contenuto molto basso di caseina, la proteina responsabile della produzione della cagliata. Per questo motivo spesso si utilizza per la produzione di robiole, un tipo di formaggio realizzato tramite cagliata lattica, mentre il gusto a volte pungente dei formaggi di capra più stagionati li rendono adatti ad intenditori ed appassionati.
Il latte di bufala.
Il latte di bufala viene utilizzato quasi esclusivamente per la produzione di ricotta e formaggi a pasta filata, perlopiù mozzarelle.  E' un latte dal notevole contenuto di materia grassa, quasi il doppio del latte vaccino, che ha anche un rendimento particolarmente elevato.

Quale latte utilizzare.
Per i primi esperimenti si può tranquillamente utilizzare il normale latte di vacca fresco, meglio se acquistato direttamente dal produttore. Il latte di pecora permetterebbe di ottenere facilmente delle ottime formaggelle da gustare fresche, ma risulta un po' ovunque di difficilissima reperibilità.
In nessun caso va utilizzato invece il latte UHT a lunga conservazione, perché il procedimento impiegato sterilizza il latte privandolo completamente della flora batterica necessaria per la qualità del formaggio.

martedì 14 agosto 2012

Crema al cioccolato (tipo Nutella) fatta in casa.

Nutella è il nome commerciale italiano di una crema gianduia a base di cacao e nocciole. Fu creata nel 1964 dall'industria dolciaria piemontese Ferrero, sulla base di una precedente crema denominata Pasta Giandujot e poi SuperCrema. Il nome deriva dal sostantivo nut, che significa "nocciola" in inglese, e il suffisso ella per ottenere un nome orecchiabile.

Crema di Nutella

L'origine della Nutella è legata al cioccolato Gianduia, che contiene pasta di nocciole. Il Gianduia prese piede in Piemonte nel momento in cui le tasse eccessive sull'importazione dei semi di cacao cominciarono a scoraggiare la diffusione del cioccolato convenzionale.
Pietro Ferrero possedeva una pasticceria ad Alba, nelle Langhe, area nota per la produzione di nocciole. Nel 1946 vendette il primo lotto costituito da 300 chili di "Pasta Giandujot". Si trattava di una pasta di cioccolato e nocciole, venduta in blocchi da taglio. Nel 1951 nasceva invece la Supercrema, conserva vegetale venduta in grandi barattoli.
Nel 1963, Michele Ferrero, figlio di Pietro, decise di rinnovare la Supercrema, con l'intenzione di commercializzarla in tutta Europa. La composizione venne modificata, così come l'etichetta e il nome: la parola "Nutella" (basata sull'inglese "nut", "nocciola"), e il logo vennero registrati verso la fine dello stesso anno, e restano immutati fino ad oggi.
Il primo vaso di Nutella uscì dalla fabbrica di Alba il 30 aprile del 1964. Il prodotto ebbe successo istantaneo, e rimane oggi estremamente popolare e ricordato con affetto in romanzi, canzoni e opere cinematografiche.
Nel giugno del 2010 il Parlamento Europeo ha approvato una normativa in base alla quale tutti gli alimenti contenenti molti grassi e zuccheri devono inserire nella loro etichetta l'avviso del "miglior profilo nutrizionale”. L'iniziativa, volta a combattere l'obesità offrendo più informazione ai consumatori, è stata criticata dal vicepresidente della Ferrero SpA Francesco Paolo Fulci che ha creato il comitato "Giù le mani dalla Nutella” sostenuto dalla regione Piemonte e dal ministro per le Politiche Europee Andrea Ronchi che ha invitato l'Unione Europea a non cadere nel "fondamentalismo nutrizionista”.
Oggi la Nutella è probabilmente la crema spalmabile più diffusa al mondo; questo tipo di creme è utilizzato soprattutto come accompagnamento per pane, biscotti e frutta, anche se negli anni sono state ideate numerose ricette che ne prescrivono l'uso in torte e crêpes.
La Nutella possiede come la Coca Cola e molti altre aziende una ricetta segreta del suo prodotto accuratamente protetta nella fabbrica ufficiale del prodotto ad (Alba).
Sin dagli esordi Ferrero ha adottato dei contenitori in vetro riutilizzabili come forma incentivante all'acquisto del prodotto. Una volta svuotato del suo contenuto il contenitore può essere utilizzato come bicchiere di casa. I bicchieri furono presto impreziositi con immagini multicolore e una forma caratteristica. L'uso di immagini serigrafiche stilizzate con temi astratti o legati alla natura è durata sino all'anno 1990, quando furono sostituite da immagini dei personaggi dell'animazione. La scelta di merchandising del prodotto a base di immagini a fumetti è ancora attuale per il formato da 200 g.

Crema tipo nutella

Non sono una persona golosa ma a ci sono alcuni dolci, come panettone, liquirizia purissima, torrone d’Alba e Nutella, che potrei consumarne “dosi industriali”; purtroppo devo fare i conti con lo spauracchio del colesterolo e pressione alta, quindi devo contenermi.
Ho trovato on-line questa ricetta per la preparazione di una crema al cioccolato (tipo Nutella); non viene proprio come la Nutella ma si avvicina molto.

sabato 11 agosto 2012

Crostini di finferli e Spressa delle Giudicarie DOP.

Questa mattina, inizio di una splendida giornata di sole, ho deciso di andare con la nonna Lina (mia madre) a cercar funghi in Val Genova. siamo partiti molto presto e, alle 8:00, eravamo già per boschi.
Dopo circa 4 ore, tornavamo a casa con un discreto “bottino”: 2,5 kg di Finferli o Gallinacci (Cantharellus Cibarius), 600 g di Porcini (Boletus Edulis), 600 g di Clavatus (Gomphus Clavatus) e 700 g di Foliota (Rozites Caperata).

Raccolta 030812

Ho suddiviso i funghi per tipo e ho scelto i Finferli, porcini piccoli e Foliota da mettere sott’olio; i porcini grandi da seccare, mentre tutto il resto, puliti, lavati, fatti a pezzetti e messi in congelatore per quest’inverno.
Ho tenuto una parte, di questo fantastico misto, per preparare dei crostini gustosi.
In realtà la ricetta originale prevedeva l’uso di soli Finferli, ma devo dire che il “mio misto funghi” forse ha reso meglio.
Prima di iniziare nella descrizione della ricetta, vorrei dire solo un’altra cosa: io amo molto queste montagne con i suoi boschi infiniti; io amo camminare a lungo, al mattino presto, quando dal sottobosco si solleva una leggera nebbiolina dovuta alla rugiada che, con i primi raggi di sole, evapora; io amo soffermarmi ad ascoltare i rumori del bosco; io amo cercare tra le foglie dei mirtilli quel fungo così bello, profumato e… tanto buono da mangiare !!

Porcino

Ora qualche parola sulla Spessa delle Giudicarie D.O.P.
La spressa delle Giudicarie è uno dei più antichi formaggi della montagna alpina ed è uno degli ultimi nati tra le DOP italiane, in quanto l'approvazione definitiva è stata ottenuta il 26 gennaio 2004, con l'iscrizione nel Registro delle Denominazioni di Origine protetta, che ne tutela la qualità all'interno dei confini nazionali e dell'Europa.

Spressa delle Giudicarie

La Spressa delle Giudicarie un tempo veniva prodotta in modo artigianale nei masi prima di trasferire le vacche all'alpeggio. Era sostanzialmente un prodotto “residuale”, poiché i contadini e i casari cercavano di ricavare dal latte la maggiore quantità possibile di burro, ben pagato dal mercato locale. Ciò che rimaneva era utilizzato per la produzione di un formaggio magro e quindi povero, il cui consumo era riservato quasi esclusivamente alla famiglia del contadino.
La denominazione "spressa" deriva dalla voce dialettale "spress", ossia la massa rappresa spremuta.
Oggi la Spressa delle Giudicarie DOP non è più magrissima come un tempo, perché non sarebbe più gradita dal consumatore, ma è pur sempre un formaggio a basso contenuto di grassi perché ottenuto da latte parzialmente scremato per affioramento.
I primi riferimenti storici risalgono a tempi molto remoti, come dimostra la "Regola di Spinale e Manez" del 1249. Più recentemente i richiami a questo formaggio si rintracciano nell' "Urbario" di Marini (*), nel quale, per gli anni 1915 e 1916, viene riportata la "Spressa da polenta" come formaggio tipico.
Oggi la produzione, per la maggior parte, viene ottenuta nel caseificio di Pinzolo (circa 50 quintali di latte al giorno dai quali vengono estratte in media 54 forme).
La Spressa delle Giudicarie è un formaggio prodotto con latte vaccino crudo ottenuto da vacche di razza Rendena (autoctona), Bruna, Grigio Alpina, Frisona e Pezzata Rossa, alimentate prevalentemente con fieno.
La Spressa delle Giudicarie oggi è un formaggio semigrasso da tavola, che può essere consumato già dopo tre mesi dalla produzione nella versione giovane e dopo sei nella versione stagionata.
Il periodo di produzione è limitato, va dal 10 settembre al 30 giugno.
Il latte, crudo e parzialmente scremato, proviene da due mungiture, quella del mattino e quella della sera. La maturazione avviene in locali freschi ed aerati.
Gli aromi della Spressa delle Giudicarie, dopo la stagionatura di tre-quattro mesi, sono intensi di latte cotto, verdura lessa e di tostato (frutta secca).

Crostini con finferli e Spressa

venerdì 10 agosto 2012

Formaggio fai da te (1) - Un po' di storia del formaggio.

Il formaggio ha origine dall'antichità, ma acquista spessore solo a partire dal Medioevo. A lungo ritenuti cibo da poveri, a partire dalla seconda metà del '300 i prodotti caseari entrano a far parte dei piaceri della tavola. Tra Medioevo ed Età moderna, a riscuotere il maggior successo fu senza dubbio il parmigiano.
L'origine così remota della scoperta ha favorito la nascita di numerose leggende attorno ad essa, la più nota è quella del mercante arabo. Un mercante, dovendo attraversare il deserto, portò con sé alcuni alimenti, tra cui latte, servendosi per il trasporto di un otre fatto con lo stomaco essiccato di una pecora. Il movimento del viaggio, il caldo e gli enzimi rimasti sulla parete dello stomaco della pecora avrebbero acidificato il latte e coagulato le proteine presenti al suo interno in piccoli grumi.
Sarebbe stata questa quindi l'origine della cagliata. La leggenda presenta dei punti che paiono verosimili, quali il fatto che la scoperta sia stata casuale e legata all'esigenza di conservare più a lungo il latte, alimento di cui i nostri antenati apprezzavano già le ottime proprietà nutritive.


Fregio della latteria
Numerose fonti attestano l'uso di ricavare formaggio dal latte: reperti di origine mesopotamica datati III millennio a.C. sono i primi documenti che mostrano le fasi di lavorazione del formaggio, in particolare il "Fregio della latteria", un bassorilievo sumero che rappresenta dei sacerdoti nell'atto di produrre il formaggio. Pare che in tale regione l'allevamento degli ovini risalisse a 8-10000 anni fa, mentre la scoperta del formaggio sarebbe addirittura precedente, risalendo ad epoche in cui gli uomini si limitavano alla caccia ed ebbero la ventura di scoprire del formaggio cagliato negli stomaci dei giovani animali che uccidevano. Tale uso è sopravvissuto fino a noi in alcune regioni in cui si consuma il formaggio cagliato nello stomaco dei capretti, come nel caso del nuorese Callu de Crabettu.
Testimonianze dell'uso del formaggio si hanno in tutto il mondo antico, sia in Europa, in Africa, e in Asia. I testi scritti più antichi, fra cui la Bibbia e gli scritti omerici riportano riferimenti al formaggio. Anche nell'antico Egitto era diffusa la produzione di formaggi, specialmente quello di capra.
Strumenti per la lavorazione del caglio in terracotta sono stati trovati in Italia a Piadena in insediamenti risalenti al neolitico.
Il primo passo fu quello di farne delle bevande lattiche acidificate. Si diffusero in tutto l’Oriente bevande acide come il KOSMOS e il KUMIS, citate anche da Senofonte e Erodoto.
Il primo  documento, ritenuto il più antico, si trova in un bassorilievo del III millennio a.C. della civiltà Sumera, “il Fregio della latteria” in cui dei sacerdoti, esperti caseari,  rappresentano le varie fasi della tecnica di lavorazione del formaggio.
Nel 7.000 a.C. quelle popolazioni cominciarono a migrare verso l’Europa portando non solo i loro animali ormai addomesticati, ma anche i loro usi.
E’ stato stabilito che tra il 7000 e il 6000 a.C., si cominciarono ad allevare anche i bovini e nel 3000 i bufali.
Poi un po’ di ingegno e la casualità  portarono alla scoperta della cagliata e quindi  del formaggio.
Il formaggio si incontra spesso anche in Omero che nell’Odissea  descrive il Ciclope Polifemo mentre nella sua grotta prepara il formaggio.
Sempre in Grecia  gli atleti che partecipavano alle olimpiadi traevano la  principale fonte di energia  da un impasto di olio di oliva, farina, frutta, miele e formaggio. 
La parola “formaggio” deriva dal greco “formos” cioè il paniere di vimini in cui  mettevano il latte cagliato che ne prendeva appunto la forma.
Da qui  la “forma” dei Romani “formage” dell’antico francese, quindi formaggio e fromage.
Il latte caprino ed ovino, lasciato nei canestri, dunque, coagulava spontaneamente, ma, quando i Romani cominciarono  a perfezionare le tecniche greche ed etrusche, ne accelerarono  la coagulazione  mescolando continuamente con rametti di  fico  o aggiungendovi direttamente succo di fico e semi di cardo selvatico.
Così la parte più densa si separava, si rapprendeva acquistando una certa consistenza: era nata la “giuncata”, perché messa in contenitori di giunco o canestri.
Sempre i Romani, provarono  ad aggiungere lo zafferano e l’aceto per cagliare il latte e così inventarono il Coagulum.
Furono i Romani a esportare nelle terre conquistate  i metodi di fabbricazione dei formaggi, e ben presto in questi paesi  l’arte del formaggio  si perfezionò in modo eccellente specialmente in Gallia, l’odierna Francia.
Da Virgilio, fonte più che attendibile, sappiamo, ad esempio, quale era la razione giornaliera di “pecorino” dei legionari romani: 27 grammi.
Più  tardi , verso il I secolo d.C.  inventarono la “pressatura” ponendo i formaggi sotto pesi forati per poterne accelerare la stagionatura  e l’Imperatore Diocleziano (III secolo d.C.) impose con un editto  che il formaggio fresco fosse venduto avvolto in foglie e che quello secco, stagionato fosse salato sulla superficie.
Nel corso dei secoli successivi la tecnica di preparazione  e di lavorazione non subì mutazioni rivoluzionarie come avvenne in altri campi, i principi basilari sono rimasti  i medesimi, le modifiche  furono opera della fantasia e dei gusti dei produttori e dei consumatori.

Preparazione del formaggio-XIV
Dal  XII  al XVI secolo custodi e precursori delle tecniche casearie  mai  tramandate scritte, furono senz’altro i  monaci,  che nei loro conventi raffinavano l’arte della caseificazione e producevano il formaggio, ritenuto per lo più un cibo povero. I monasteri conservavano le tradizioni latine, per cui avevano mantenuto l'uso di fare formaggio anziché utilizzare il latte per produrre bevande fermentate, come erano soliti fare molti dei popoli discesi nell'impero dopo la sua caduta.
In una biografia di Carlo Magno risalente al IX secolo, si racconta di una visita, per la verità un po' a sorpresa, dell'imperatore a un importante vescovo. L'imperatore, inatteso, aveva scelto un giorno di astinenza dalle carni e allora il vescovo, non disponendo di pesce per onorare l'illustre commensale, servì un semplice pasto che diede modo a Carlo di gustare quello che lui definì "un ottimo formaggio bianco e grasso", alimento che all'epoca era considerato derrata povera, adatta alla gente di campagna dai "gagliardi stomaci", più che alle persone altolocate, ma che fece breccia a tal punto nel cuore dell'imperatore che egli arrivò ad ordinarne l'invio di due casse all’anno. Attorno al rapporto fra Carlo Magno e il formaggio fiorì comunque una ricca tradizione popolare: Eginardo ne parla, descrivendo la perplessità dell'imperatore di fronte ad una fetta di Gorgonzola o di un suo antenato, una delle possibili spiegazioni del nome Castelmagno sarebbe che il sovrano ne era ghiotto (sebbene le fonti attestino che il formaggio venne prodotto solo nel XII secolo).
Le testimonianze sulla diffusione del formaggio nelle tavolate "nobili" iniziano a comparire tra il tardo Duecento e il Quattrocento nei ricettari di cucina, inizialmente come ingrediente di vivande elaborate, ma in seguito esso acquistò dignità, tanto da essere servito come pietanza alla mensa dei papi, ai matrimoni della famiglia de Medici, degli Este che servivano bocconi di Parmigiano e di molte altre personalità.
Le tariffe dei pedaggi e le gabelle comprovano che, a partire almeno dal secolo XIII, formaggi di qualità differenti circolavano sulle strade d'Italia e attraverso valichi alpini, raggiungendo spesso mercati molto lontani dalle zone d'origine.