martedì 30 giugno 2015

Oggi facciamo i grissini stirati a mano.


Il grissino è uno dei più celebri e diffusi prodotti della gastronomia del torinese e uno dei più noti della cucina italiana all'estero.
Tradizionalmente la sua nascita si fa risalire al 1679, quando il fornaio di corte Antonio Brunero, sotto le indicazioni del medico lanzese Teobaldo Pecchio, inventò questo alimento per poter nutrire il futuro Vittorio Amedeo II, di salute cagionevole ed incapace di digerire la mollica del pane.  Il Re sabaudo Carlo Felice li prediligeva così tanto che, in palco, al Teatro Regio, ne sgretolava per passatempo.

Grissini torinesi stirati a mano

Il successo dei grissini fu particolarmente rapido, sia per la maggiore digeribilità rispetto al pane comune, sia per la possibilità di essere conservato anche per diverse settimane senza alcun deterioramento. Il nome deriva da quello della ghërsa, il classico pane piemontese, di forma allungata.
La forma di grissino più antica e tradizionale è indubbiamente il robatà (pronuncia: rubatà). che in piemontese significa "caduto", di lunghezza variabile dai 40 agli 80 cm, facilmente riconoscibile per le caratteristica nodosità, dovuta alla lavorazione a mano. Il robatà di Chieri è incluso nella lista prodotti agroalimentari tradizionali italiani del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Sono allo stesso modo considerate zone di produzione classica del rubatà, il Torinese, la zona di Andezano e il Monregalese.
L'unica altra forma di grissino tradizionale e tutelata è il Grissino Stirato. Di invenzione più recente rispetto al robatà, si distingue da questi in quanto la pasta, invece che essere lavorata per arrotolamento, viene allungata tendendola dai lembi per la lunghezza delle braccia del panificatore, il che conferisce maggiore friabilità al prodotto finale. Soprattutto questo tipo di lavorazione permise la produzione meccanizzata già a partire dal XVIII secolo.
Fra i grandi estimatori del grissino torinese, non si può non citare Napoleone Bonaparte, il quale creò, all'inizio del XIX secolo un servizio di corriera fra Torino e Parigi prevalentemente dedicato al trasporto di quelli che egli chiamava "les petits bâtons de Turin".
Ne esistono anche diversi tipi aromatizzati (all'origano, al sesamo, al cumino, ecc.). Nel duomo di Chieri, in un affresco del battistero (XV secolo), c'è un personaggio che sembra mangiare un grissino.
Il grissino è l'ingrediente principale della Zuppa dei Valdesi, piatto tipico della Val Germanasca e delle alpi occidentali, a base di grissini, formaggio, burro, brodo di manzo, noce moscata e cannella.

Ho sempre creduto che fare il pane buono in casa, o altri prodotti da forno (focaccia, pizza, grissini, ecc.), non fosse poi così semplice: mi sbagliavo. Ho iniziato, come al solito, a navigare in rete alla ricerca di spunti e ho trovato questo Blog, interamente dedicato “all’arte bianca”, che mi ha convinto del contrario.
Da quel momento, seguendo le ricette proposte dal blog, ho fatto il pane, la pizza, la colomba Pasquale e oggi voglio provare con i grissini stirati a mano.

I miei grissini stirati a mano

lunedì 29 giugno 2015

Involtini di pasta fillo tipo Börek.....alla trentina!

Il börek (altrove chiamato burek o lakror) è uno dei piatti e dei sapori tradizionali della gastronomia turca; è diffuso anche nei Paesi balcanici a seguito dell'espansione ottomana. Le sue origini, antichissime, risalgono addirittura ad ancor prima delle migrazioni dei Turchi dell'Asia centrale verso occidente e più precisamente verso l'Anatolia.


Börek.

Con il termine börek, ci si riferisce in turco a ogni piatto a base di yufka (pasta fillo) e il nome deriva dal tema turco bur- "arrotolare" che, inoltre, può descrivere anche un qualsiasi piatto formato da una pasta arrotolata.
Tuttavia, spesso, il termine börek è accompagnato, nella lingua turca, da un'altra parola per descrivere la forma, gli ingredienti, i metodi di cottura oppure una regione specifica del Paese dove è preparato in un modo particolare. Citiamo, ad esempio, sigara böreği (a forma di sigaro), kol böreği (a forma di braccio, perché leggermente piegato al centro), talaş böreği (a pezzettini), Tatar böreği (tartari) o Sarıyer böreği (di Sarıyer).

mercoledì 17 giugno 2015

Sedanini con speck e mela.

In Italia vengono consumate almeno 300 varietà di pasta diverse, classificabili in base alla composizione (semola di grano duro o tenero) o al formato. La differenziazione dei formati non è soltanto uno sfizio estetico ma è, prima di tutto, una questione di gusto. La pasta, infatti, assume questo o quel sapore in funzione della sua forma e della sua capacità di trattenere il sugo, forma che risulta la protagonista assoluta del legame tra condimento e pasta. La divisione più classica delle paste secche è tra quelle lunghe e quelle corte, lisce o rigate. In generale, le paste lunghe amano sughi fluidi, liquidi, a base di pomodoro fresco e di pesce, mentre le paste corte andrebbero abbinate a sughi più densi, corposi e avvolgenti, come ragù a base di carne e verdure. 
Quando si acquista un pacco di pasta in primo luogo bisogna stare attenti che la confezione sia integra e che riporti la dicitura “farina di semola di grano duro” e un’umidità che non deve superare mai il 12,5%. Una volta aperta la confezione, è necessario controllare alcuni requisiti quali il colore e l’aspetto della pasta. Il colore deve essere omogeneo, giallo ambrato, mai troppo scuro: un colore troppo “abbrustolito” infatti potrebbe indicare la presenza di grano tenero e, soprattutto, è il segnale che la pasta è stata essiccata a temperature troppo elevate, probabilmente per ridurre i tempi di produzione.

Formati di pasta.

Per quanto concerne l’aspetto della pasta, l’eventuale presenza di puntini neri indica che la produzione è stata condotta in un ambiente non troppo pulito o che nella semola erano presenti delle impurità; puntini bianchi, invece, suggeriscono che nella pasta c’è presenza di farina di grano tenero oppure che il prodotto ha subito un errato processo di essiccazione. La pasta, infine, non deve presentare bolle d’aria, fessure o tagli, muffe, larve o parassiti, indicativi di un cattivo stato di conservazione e confezionamento. 

lunedì 8 giugno 2015

Pesche agli amaretti.

Il termine amaretto, riferito ad un dolce, indica un biscotto di pasticceria, diffuso in tutte le regioni d'Italia a base di pasta di mandorle, fatto con zucchero, bianco d'uovo, mandorle dolci e mandorle amare e armelline.

Amaretti.

Nati in Italia nel medioevo, verso la fine del XIII secolo si sono diffusi nei paesi arabi e, durante il rinascimento, in tutta Europa. Oltre alla produzione italiana, in particolare quella lombarda, vanta grandi tradizioni quella Francese, soprattutto in Lorena e nei Paesi Baschi.
Di questo dolce esistono principalmente due versioni differenti: l'amaretto tipo Saronno, croccante e friabile, e l'amaretto tipo Sassello, morbido e più simile al marzapane. Entrambi hanno forma tondeggiante, come una piccola calotta, e la superficie screpolata.
L’amaretto di Saronno o amaretto secco, fu probabilmente inventato dagli Arabi e a partire dal bacino del Mediterraneo, e specialmente dalla Sicilia, passò successivamente nella tradizione culinaria di Normanni, Spagnoli, Francesi. Pellegrini e conventi ne assicurarono la diffusione, resa più facile dal fatto che il dolce è poco deperibile.

Amaretti di Saronno.

L'amaretto di Saronno è usato molto in alcuni dolci tradizionali, quali le pesche ripiene alla piemontese. il bônet e alcuni tipi di tiramisù.
L'amaretto croccante ha struttura interna alveolare: Ingredienti principali sono: zucchero, mandorle dolci, mandorle amare, bianco d'uovo di gallina, ma possono venire aggiunti aromi, miele, latte, lievito e, specie nella produzione industriale, conservanti.
L’amaretto di Sassello, ormai diffuso in tutta Italia, deve il suo nome al comune di Sassello. È infatti originario dell'entroterra di Savona e del basso Piemonte, dove nacque nel XIX secolo con la stessa ricetta usata ancora oggi, basata su zucchero, mandorle dolci pelate, albume d'uovo e armelline amare. A Sassello viene festeggiato a luglio con una sagra dedicata, dove in abiti d'epoca, le donne lanciano amaretti dai carri trainati da cavalli o buoi.

Amaretti di Sassello.

Gli amaretti di pasticceria sono diffusi praticamente in tutte le regioni d'Italia, solitamente nella versione tradizionale morbida, e sono vicini a moltissimi altri dolci a base di pasta di mandorle come la pasta reale e la frutta martorana. Tra le regioni più importanti possiamo citare la Liguria, nella zona del Sassello e nel basso Piemenote (dove compaiono in versione morbida e secca a Gravi, a Voltaggio e soprattutto a Mombaruzzo).

Risotto con melone e speck.

Il melone (Cucumis melo) è una pianta rampicante della famiglia delle Cucurbitaceae.
Il termine melone indica sia il frutto che la pianta stessa, a seconda dei contesti in cui viene utilizzato.
È largamente coltivata per i suoi frutti commestibili, dolci e profumati. 
È una pianta erbacea strisciante o rampicante, annuale.
Le radici fibrose possono estendersi nella terra anche oltre i 150 cm.; il fusto, ricco di peluria, è ramificato con cirri; le foglie sono alterne, lunghe più di dieci centimetri, quanto il picciolo.
I fiori, gialli a 5 lobi, sono generalmente monoici (sessi separati su due fiori distinti) e compaiono normalmente prima quelli maschili riuniti in infiorescenze.

Melone retato.

Nonostante la copiosa fioritura, che dura tutta l'estate da maggio a settembre, solo il 10% diventa frutto.
Il frutto del melone è voluminoso, di forma ovale o tondeggiante e sulla buccia sono visibili delle divisioni "a fette".
La buccia è pressoché liscia o appena rugosa, il colore può variare da un giallo pallido ai toni del verde.
La polpa varia dal bianco all'arancio ed è succosa e molto profumata quando raggiunge la maturazione.
La cavità centrale, fibrosa, contiene molti semi.
Di probabili origini africane (secondo alcuni invece dall'Asia, nell'antica Persia), nel V secolo a.C. il popolo egizio iniziò ad esportarlo nel bacino del Mediterraneo e arrivò in Italia in età cristiana, come documentato da Plinio (I secolo d.C.) nel suo libro Naturalis Historia che lo uniformò al cetriolo a forma di mela cotogna, melopepaes
Durante l'Impero Romano il melone si diffuse rapidamente (utilizzato però come verdura, servito in insalata) tanto che al tempo dell'imperatore Diocleziano, venne emesso un apposito editto per tassare quegli esemplari di melone che superassero il peso di 200 grammi.
Alexandre Dumas scrisse “per rendere il melone digeribile, bisogna mangiarlo con pepe e sale, e berci sopra un mezzo bicchiere di Madera, o meglio di Marsala”; egli apprezzava i meloni conosciuti in Francia come Cavaillon, per la zona di produzione, e fece richiesta alla biblioteca della città di uno scambio tra le sue opere (circa 400 volumi) ed una rendita vitalizia di 12 meloni l'anno, cosa che accadde fino alla sua morte nel 1870
Fu in suo onore che venne istituita la confraternita dei Cavalieri dei meloni di Cavaillon.

Melone retato.

Il melone venne anticamente considerato simbolo di fecondità, forse in ragione dei numerosissimi semi, ed altresì associato al concetto di sciocco e goffo (uno stolto veniva chiamato mellone e una scemenza mellonaggine). Secondo Angelo De Gubernatis, la ragione di tale associazione è da ricercare nell'estrema fecondità di questi frutti, alla loro capacità generatrice, incontrollata, opposta alla ragione dell'intelligenza. 
Altri medici del tempo li consideravano nocivi e imputarono al melone la morte di ben quattro imperatori e due pontefici. Anche il naturalista romano Castore Durante (1529-1590) nel suo Herbario nuovo del 1585 ammoniva di non abusarne perché «sminuiscono il seme genitale» e ne sconsigliava l'uso a diabetici, dispeptici e a tutti coloro che soffrono di disturbi dell'apparato digerente, promuovendo per tutti gli altri invece le virtù rinfrescanti, diuretiche e lassative.