giovedì 8 agosto 2013

Muffin alle albicocche.

L'albicocca è il frutto dell'albicocco (Prunus armeniaca), famiglia delle Rosacee, genere Prunus, specie Prunus armeniaca.
La pianta appartiene alla stessa famiglia e genere di frutti quali la ciliegia, la pesca e la prugna. Con alcuni di questi sono stati prodotti vari ibridi molto apprezzati dai mercati in cui sono stati introdotti.

Albicocche.

L'albicocco è una pianta originaria della Cina nordorientale al confine con la Russia. La sua presenza data più di 4000 anni di storia. Da lì si estese lentamente verso ovest attraverso l'Asia centrale sino ad arrivare in Armenia (da cui prese il nome) dove, si dice, venne scoperta da Alessandro Magno. I Romani la introdussero in Italia e in Grecia nel 70-60 a.C., ma la sua diffusione nel bacino del mediterraneo fu consolidata successivamente dagli arabi, infatti Albicocco deriva dalla parola araba Al-barquq. L'albicocca crescerebbe in natura selvatica in Cina da ben 4.000 anni. Oggi è diffuso in oltre 60 paesi e viene coltivato in climi caldi o temperati e relativamente asciutti.
Sull'etimologia della parola "albicocca" esiste qualche perplessità. La maggioranza degli studiosi concorda tuttavia sul fatto che la parola di riferimento sia araba (al-barqūq) e che questa sia stata adottata poi nel tardo latino praecox, nel senso di "precoce". Da essa deriverebbe la parola "percoca", usata essenzialmente per indicare una varietà di pesca a polpa gialla.
Stati Uniti, Spagna, Italia, Francia e Grecia sono i maggiori stati produttori di albicocche a livello mondiale. Le varietà di albicocca sono molte e, anche se i gusti sono simili, le dimensioni ed i colori variano a seconda della specie.

Coltivazione di albicocche.

L’albicocco si presenta come alberello a foglia caduca che può raggiungere i 12-13 metri allo stato selvatico. Nelle coltivazioni, tuttavia, la pianta viene tenuta sotto i 3,5 metri per agevolare la raccolta dei frutti. Ha una chioma a ombrello, con tronco e rami sottili e leggermente contorti. Le foglie sono ellittiche, con punte acuminate e bordo seghettato e piccioli rosso violaceo.
La larghezza media è di 7-8 cm, ma varia da una cultivar (varietà) all'altra, pur restando più larga di altre piante della medesima famiglia. I fiori sono molto simili ai loro cugini ciliegio, pruno e pesco. I fiori sono singoli, ma sbocciano a gruppetti che si situano all'attaccatura delle foglie.
Hanno 5 sepali e petali, molti stami eretti e variano dal bianco puro ad un lieve colore rosato. La pianta viene impollinata usualmente dagli insetti (api) e non richiede impollinazione manuale. Non presenta di norma fenomeni di autosterilità, e quindi anche un albero singolo fruttifica regolarmente.

giovedì 25 luglio 2013

Rugelach alla crema di cioccolato.

Il Rugelach è un dolce tipico della cultura Ebraica di origine Aschenazita.
I Rugelach tradizionali hanno la forma simile a quella di un croissant, fatto con pasta arrotolata intorno ad un ripieno. Alcune fonti ne attribuiscono la medesima origine Viennese, commemorativa della battaglia di Vienna del 1683; tuttavia, tale fatto rimane soltanto una leggenda metropolitana, in quanto il Rugelach e un suo ipotetico predecessore Kipfel (o Kipferl) sono antecedenti all'era moderna, mentre il Croissant come lo conosciamo oggi è stato introdotto soltanto nel XIX secolo.

Rugelach.

Fedele alle sue origini, il nome viene dallo Yiddish: il finale ach indica il plurale, mentre la particella el indica un diminutivo; la radice Rug del nome significa "rigirato" oppure "rivoltato", in riferimento alla forma di questi dolci. La traduzione finale può quindi essere "involtini dolci". Alternativamente, si può intendere la radice come Rugel che in ebraico significa "Reale" (riferito al gusto); tuttavia, tale ipotesi è in contrasto con l'equivalente Yiddish della parola "reale" stessa, ovvero "keniglich".

Rugelach.

I Rugelach sono preparati con una pasta di panna acida (ricetta tradizionale) o, alternativamente, di formaggio cremoso (più recente, probabilmente introdotto da Ebrei Americani); esistono anche versioni prive di derivati del latte, tale da far sì che il dolce possa esser consumato insieme o dopo un pasto di carne e rispettare le regole kosher di tradizione Ebraica. Il ripieno può variare: uvetta, cioccolato, nocciole, marzapane, cannella o frutta candita. 
Unica difficoltà da segnalare è la lavorazione dell'impasto, che potrebbe risultare molto morbido (non va aggiunta farina).
Per risolvere il problema, occorre far riposare il composto in frigorifero diverse ore (deve rassodarsi) e tirare l'impasto con il mattarello dopo averlo ben infarinato.
Parte della tradizione popolare Ebraica, si consumano in ogni periodo dell'anno, in ogni giorno della settimana, incluso il Sabato.

domenica 21 aprile 2013

Il Tabulè.

Il Tabbouleh o Tabulè (anche tabouleh o tab(b)ouli) è una pietanza araba del Vicino Oriente, appartenente alla cucina levantina. Consiste in un'insalata a base di bulgur, con prezzemolo, cipollotti e menta tritati fini e con pomodoro e cetrioli a tocchettini, il tutto condito con succo di limone e olio d'oliva. Durante il pasto è normalmente servito all'inizio nell'ambito delle Meze (una selezione di antipasti, per la maggior parte di consistenza cremosa, che nella cucina levantina, nella cucina greca e nella cucina turca sono serviti all'inizio del pasto, prima delle portate principali).

Tabulè.

Il termine Tabbūle deriva dall'arabo levantino. Il significato di questa parola in questa lingua è quello di "leggermente speziato".
Originario delle montagne della Siria e del Libano, il tabbouleh è diventato l'insalata più diffusa nella cucina mediorientale.
Nel mondo arabo ed in particolare in Siria è normalmente servito fra le Meze e guarnito con della lattuga.
La variante libanese utilizza più prezzemolo che bulgur, mentre nelle varianti siriana e israeliana questo secondo elemento è presente in quantità predominante.
Esiste una variante nella Cucina turca di questo piatto, conosciuta come kisir, mentre un analogo piatto nella Cucina armena è noto come eetch. A Cipro, dove il piatto è stato introdotto dai libanesi, è noto come tambouli.
In Libano, la variante di grano salamouni, coltivata nella regione di Hawran, nei monti e nella Valle della Beqa' e Baalbek era considerata nel XIX secolo come la migliore per realizzare il bulgur per la preparazione del tabbouleh.
Il bulgur (denominato anche bulghur, boulghour, boulgour, boulgoul, boulghoul, bulghul o bulgul) è un alimento costituito da frumento integrale, grano duro germogliato, che subisce un particolare processo di lavorazione. I chicchi di frumento vengono cotti al vapore e fatti seccare, poi vengono macinati e ridotti in piccoli pezzetti; è molto diffuso in Medio Oriente.

Frumento.

Il bulgur ha le stesse caratteristiche nutrizionali del frumento integrale: è quindi una buona fonte di fibre, vitamine del gruppo B, fosforo e potassio.
Ha un indice di sazietà piuttosto elevato, caratteristica comune a tutti i cereali integrali in chicchi.
Esistono diverse forme di bulgur, a seconda della grandezza dei pezzetti: le pezzature più grandi sono utilizzate per preparare minestre, quelle più fini per piatti freddi ed insalate.
Il bulgur si trova principalmente nei negozi di alimentazione biologica, di cibi etnici o più semplicemente in erboristeria. Ma sempre più si trova anche nei supermercati di tutta Italia.
Diversa è la situazione altri paesi europei: in Germania e in Francia per esempio il bulgur si trova anche nei supermercati (e naturalmente nei negozi di alimentari turchi), a prezzi convenienti e disponibile in molte varietà.

Bulgur.


Esiste anche il bulgur crudo, non germogliato e non precotto. Si ottiene spezzando direttamente il grano duro selezionato minuziosamente, fino ad ottenere una granulometria che permette la cottura in circa 15 minuti. 
Questo tipo di bulgur crudo, non avendo subito i processi di germogliazione, essiccazione e precottura, mantiene tutte le caratteristiche e i benefici del cereale 100% integrale, i granellini di grano duro infatti sono avvolti dalla loro crusca e provvisti del germe, conservandone così le proprietà e il bel colore vivo del grano duro e dopo la cottura rimangono più consistenti. Il bulgur crudo, che viene anche chiamato "spezzatino di grano duro" o "raw bulgur" o "cracked wheat" viene prodotto, da alcuni anni, in Italia con grano duro di origine Italiana.
Chi apprezza il cous cous non può non amare anche il bulgur, uno dei tanti tesori culinari del Medio Oriente che garantisce rapidità di preparazione, versatilità e molte proprietà nutrizionali.

domenica 7 aprile 2013

Gnocchi al ragù.

"Giovedì gnocchi”: detto tipicamente romano proprio perché gli alimentari il giovedì vendevano gli gnocchi (mentre le osterie li inserivano nel menù), il giorno seguente ceci e baccalà e il sabato il trito di frattaglie di bovino. La storia però del famoso detto popolare ha una spiegazione ancora più antica che risale alle usanze cristiane.

Gnocchi di patate.

Per i cristiani il venerdì era il giorno della penitenza, giorno in cui si mangiava un piatto "magro" per questo si usava il pesce, ci si preparava allora al venerdì mangiando il giorno prima, appunto il giovedì, un piatto piuttosto suntuoso ( per quell'epoca!). Il sabato poi, l’usanza era quella di macellare manzi e vitelli prima della domenica e, mentre al padrone venivano riservate i tagli  migliori della carne, i contadini si dovevano accontentare dei pezzi considerati meno pregiati, quindi le frattaglia dello stomaco,  la trippa.
Gli gnocchi si sono diffusi in Europa ancor prima della  scoperta dell'America con la diffusione della patata. La preparazione degli gnocchi in Italia risale al rinascimento, quando gli gnocchi venivano impastati con latte, molliche di pane e mandorle tritate, nel '600 si usava impastare acqua con farine di frumento e infine dall'800, con la diffusione della patata,  nascono gli gnocchi come li conosciamo oggi.

Oggi non è giovedì ma sabato e siccome ho preparato una certa quantità di ragù di “scorta” per la settimana, ho deciso che domenica avrei mangiato un bel piatto di gnocchi al ragù.

Gnocchi al ragù.

sabato 30 marzo 2013

Orecchiette con cozze, vongole e patate.


Le orecchiette sono un tipo di pasta tipico della regione Puglia e Basilicata, la cui forma è approssimativamente quella di piccole orecchie, da cui deriva appunto il nome. Nel tarantino e in Valle d'Itria è ancora in uso il sinonimo "chiancarelle" o "recchjetedd", "fiaffioli" o "Facilletti". A Latiano (BR) invece vi è la sagra degli stacchioddi (altro nome per indicare le orecchiette).

Orecchiette.

La loro dimensione è di circa 3/4 di un dito pollice, e si presentano come una piccola cupola di colore bianco, con il centro più sottile del bordo e con la superficie ruvida. Ne esiste anche una versione realizzata senza la forma di cupola, meglio conosciuta come "strascinati". In tutte le varianti, si realizzano utilizzando esclusivamente farina di grano duro, acqua e sale.
La ricetta tipica regionale è quella che le vede insieme alle cime di rapa. Ma nella Capitanata o nel Salento è tipica anche la variante che le vede insieme a sugo di pomodoro (con o senza spezzatino di carne o polpette o brasciole) e/o ricotta forte di pecora.
A Cisternino (BR) le orecchiette si realizzano con farina di grano tenero poco raffinato, sono più grandi e assumono una forma diversa, con nervature interne profonde, molto simile ad un padiglione auricolare e vengono definite "recch' d'privt" - ovvero "orecchie del prete". La ricetta classica contadina dei giorni di festa prevede il condimento con ragù di coniglio.
Le origini delle orecchiette non sono da ricercarsi in Puglia, ma molto probabilmente nella zona provenzale francese, dove fin dal lontano Medioevo si produceva una pasta simile utilizzando il grano duro del sud della Francia. Si trattava di una pasta molto spessa e a forma di dischi, incavata al centro mediante la pressione del dito pollice: questa forma particolare ne facilitava l'essiccazione, e quindi la conservazione per fronteggiare i periodi di carestia. Sembra anche che ne venissero imbarcate grandi quantità sulle navi che si accingevano ad affrontare lunghi viaggi. In seguito, sarebbero state diffuse in tutta la Basilicata e la Puglia con il loro nome attuale dagli Angioini, dinastia che nel Duecento dominava le terre delle regioni. Secondo insigni studiosi di enogastronomia pugliese - ricordiamo qui solo il più autorevole - le orecchiette avrebbero avuto origine nel territorio di Sannicandro di Bari, durante la dominazione normanno-sveva, tra il XII e il XIII secolo.

Orecchiette.

È infatti possibile, in seguito all'atteggiamento di protezione nei confronti della comunità israelitica locale da parte dei normanno-svevi, la loro derivazione da alcune ricette della tradizione ebraica, come le orecchie di Haman - l'antagonista del libro di Esther - che ritroviamo, ad esempio, in alcuni dolci sefarditi oppure nelle croisettes, un tipo di pasta preparato nelle vallate occitane del Piemonte, lontana parente delle orecchiette di Sannicandro anche nella probabile influenza mediorientale.

Ogni volta che mi accingo a fare un po’ di orecchiette, mi torna alla mente mia nonna Sabina (madre di mia madre) che, per un lungo periodo, venne a vivere con noi. Una piccola donna dai capelli bianchi e con la parlata spiccatamente foggiana. Io restavo stupefatto nel guardare la velocità di quelle piccole mani rugose nel preparare le orecchiette che sembravano fatte a macchina: tutte piccole e uguali; mani abituate da sempre a impastare, lavorare il pane, la pasta per tutta la famiglia. Ho imparato guardando lei e, successivamente, mia madre.
Ora mia madre le prepara raramente, solo perché, col passare del tempo (quest’anno ha compiuto 84 anni), è venuta meno la voglia di applicarsi in cucina; qualche volta gli dico: “dai mamma, ho voglia di orecchiette, dammi una mono che ne facciamo un po’ anche per Patrizia (mia sorella)”. In questo modo si convince e le facciamo; anche lei veloce e brava “quasi” quanto sua madre.
Nel caso non si voglia "perdere tempo" nel preparare la pasta fresca, in commercio si trova dell'ottimo prodotto industriale sia fresco, sia secco che non modifica la buona riuscita di questo piatto.

Orecchiette con cozze, vongole e patate.

giovedì 7 marzo 2013

Il limone (2) - La marmellata.

Prima di descrivere la preparazione di questa buonissima marmellata, continuiamo nella descrizione delle caratteristiche nutrizionali del limone (vedi post del limoncello).

Limoni.

In farmacologia il limone è molto apprezzato e le sue parti utilizzate sono il succo e il pericarpio (scorza). Il suo uso come farmaco era consolidato quando ancora non si sapeva nulla delle vitamine. Innanzi tutto ne veniva apprezzato il succo quale antiemorragico, disinfettante, diminuzione consistenza di feci (diarrea) e ipoglicemizzanti (tende a far diminuire il glucosio nel sangue). Nell'aromaterapia viene indicato come rinfrescante, tonico per la circolazione, battericida, antisettico, valido per abbassare la pressione arteriosa, utile per eliminare verruche, calli, gengive infiammate, per curare artrite e reumatismi, vene varicose, raffreddore, influenza. Era reputato indispensabile nella cura dello scorbuto, cosa ben nota tra i marinai che non mancavano di approvvigionarsi di limoni prima di ogni viaggio impegnativo.

Caratteristiche nutrizionali del limone.

100 g di polpa di limone, rappresentano il 71% del fabbisogno giornaliero di vitamina C per una persona adulta, ed il 7% del fabbisogno di potassio, l'1% di calcio ed il 9% di magnesio.
In Sicilia, dove esiste da sempre il problema dell'acqua potabile, era in voga l'uso di immettere nelle riserve d'acqua vari limoni tagliati a metà. La gente sapeva per esperienza che i limoni disinfettano l'acqua e la ricerca moderna ha dato ragione a questa antica saggezza. Forse dobbiamo trovare proprio in questi usi ancestrali il motivo per cui ancora oggi offriamo un bicchiere d'acqua con la fettina di limone.
Sembra sia originario dell'India, ma di questo fatto non siamo proprio sicuri, in quanto, la parola limun, in arabo, indica indifferentemente tutti gli agrumi; potrebbe essere che nell'antichità, il limone e le sue proprietà, fossero già conosciute dal popolo arabo e appellato, insieme a tutti gli altri agrumi, col nome limun. Una caratteristica quasi unica del limone è che esso ha la proprietà di fiorire in continuazione, si ha così la possibilità di vedere in una pianta di limoni fiori, frutti acerbi e maturi contemporaneamente. Grazie a questo fatto la produzione dei limoni è presente tutto l'anno, con un rallentamento durante i mesi più freddi.  A differenza degli altri agrumi il limone può giungere a maturazione anche una volta staccato dalla pianta e molto spesso i limoni vengono colti ancora verdi, trattati con un procedimento funghicida, incerati e spediti verso mercati esteri, dove verranno poi trattati per farli maturare. Per questo motivo è sempre meglio non consumare la loro buccia, a meno che non si è certi che provengano culture biologiche.

Limoni.

Le proprietà principali del limone nella cultura ormai di massa risiederebbero nel suo alto contenuto di vitamina C. Questa vitamina così importante per la nostra salute si degrada molto rapidamente e la sua conservazione in frigorifero non riesce certo a mantenerla integra al 100%. Oltre alla vitamina C, il limone contiene: saccarosio, glucosio e fruttosio ( zuccheri immediatamente assimilabili), sali minerali, calcio, fosforo, ferro, manganese, rame e altre importanti vitamine del gruppo B e A.

mercoledì 6 marzo 2013

Il limone (1) - Limoncello.

Il limone (Citrus × limon (L.) Burm.f) è un albero da frutto appartenente al genere Citrus e alla famiglia delle Rutaceae. Il nome comune limone si può riferire tanto alla pianta quanto al suo frutto.

Albero di limone.

È un antico ibrido, forse tra il pomelo (ritenuta una delle tre specie da cui derivano tutti gli agrumi oggi conosciuti ) e il cedro, ma da secoli costituisce specie autonoma che si propaga per talea e innesto.
 Il limone è un albero che raggiunge dai 3 ai 6 metri di altezza. I germogli e i petali sono bianchi e violetti.
Il frutto è giallo all'esterno e quasi incolore all'interno, di forma sferica fino ad ovale, spesso con una protuberanza all'apice e appuntito all'altra estremità. La buccia può essere da molto ruvida a liscia, più o meno foderata all'interno con una massa bianca spugnosa detta albedo.
Solitamente i limoni si coltivano per la produzione di frutti ma la pianta può essere coltivata in vaso a scopo ornamentale. Per le coltivazioni in vaso è consigliata terra specifica per agrumi e il rinvaso annuale prima del ricovero invernale in serra.

Fiore del limone.

In clima favorevole, il limone fiorisce e fruttifica due volte l'anno. La fioritura dura almeno due mesi e il frutto maturo può attendere altri due mesi sull'albero prima di venir colto, il che favorisce una raccolta sistematica. La fioritura primaverile produce i frutti migliori, la cui raccolta dura poi tutto l'inverno, da novembre ad aprile o maggio. La seconda fioritura, a volte forzata nelle piantagioni commerciali, avviene in agosto e settembre, i frutti si possono raccogliere da maggio in poi, subito dopo quelli invernali. In condizioni favorevoli, un albero adulto può dare da 600 a 800 frutti all'anno. 
La prima descrizione del limone appare in epoca romana in alcuni dipinti pompeiani. Sembra che il primo agrume del mondo romano sia stato il cedro, ben noto tra i Romani come "pomo di Persia". È documentato che i Romani conoscevano già nel I secolo pure il limone e l'arancio amaro.
Un'altra descrizione del limone, introdotto dall'India due secoli prima, appare in scritti arabi del XII secolo. Le origini del nome derivano dal persiano (līmū). In Europa la prima coltivazione è in Sicilia, dopo il X secolo e più tardi a Genova (a metà del XV secolo. Compaiono nelle Azzorre nello stesso periodo, nel 1494.

Limone.

I limoni sono coltivati in tutto il mondo in innumerevoli varietà che probabilmente neanche i botanici riescono a registrare correntemente. Le differenze tra di esse sono infatti riscontrabili prevalentemente nell'aspetto esteriore, mentre rimangono praticamente invariate sia le loro qualità alimentari che la relativa importanza economica. Il limone infatti, ben raramente viene consumato come frutto fresco, per cui cambiamenti minori di gusto non sono molto importanti. Per la lavorazione industriale vanno bene tutte le varietà, con l'esclusione forse di quelle poche che per il precoce deterioramento vengono consumate sul luogo di produzione. Sono così quasi ignote le varietà del limone rosso e del limone dolce che danno frutti sempre agri, ma nel contempo abbastanza dolci da poter essere mangiati come frutta fresca. Quando questi limoni giungono a maturazione si deteriorano nel giro di due o tre giorni, per cui logicamente vengono consumati dalla popolazione locale e rimangono sconosciuti su un mercato più vasto. 

domenica 3 marzo 2013

Riciclo (4) - Crostini di polenta con crema di fagioli.

La polenta è stata, per secoli, uno dei piatti alla base dell’alimentazione contadina (e non solo) per il suo basso costo ma, soprattutto, per la sensazione di sazietà che dava dopo averla consumata.
In passato tra alcune popolazioni povere (Sudamerica, Italia del Nord-est, bassa Padana) che si nutrivano quasi esclusivamente di polenta senza l'apporto di altri elementi, come le vitamine, si verificarono molti casi di pellagra. Questa malattia deriva infatti dall'assenza totale di vitamine e da un'alimentazione poverissima di proteine.

Polenta taragna.

Alimento molto diffuso,in particolare al nord, veniva e viene tuttora preparata in diverso modo nelle varie regioni: arricchita, condita, accompagnata con gli ingredienti tipici delle varie zone.
La polenta taragna.
La prima coltivazione di mais a Lovere, in Val Camonica secondo la tradizione locale, giunse con l'importazione di 4 chicchi di granoturco dalle Americhe da parte di Pietro Gajoncelli nel 1658.
La polenta taragna, in molte zone conosciuta come taragna, è una ricetta tipica della cucina valtellinese, camuna e delle valli bresciane bergamasche. Il suo nome deriva dal tarai ("tarel"), un lungo bastone usato per mescolarla all'interno del paiolo di rame in cui veniva preparata. Come altre polente della montagna lombarda (ad esempio la pulénta vüncia, polenta uncia cioè unta), è preparata con una miscela contenente farina di grano saraceno, che le conferisce il tipico colore scuro, diversamente dalle preparazioni di altre regioni, che utilizzano un solo tipo di farina, ottenendo quindi una polenta gialla. A differenza dell'oncia, nella polenta taragna il formaggio viene incorporato durante la cottura.
Il grano saraceno (Fagopyrum esculentum) è una pianta a fiore appartenente alla famiglia delle Polygonaceae. Il nome scientifico, Fagopyrum deriva dalla combinazione del latino fagus (con il faggio ha in comune la forma assai caratteristica dei semi triangolari) e gal greco piròs (come dai semi del frumento anche dai semi del grano saraceno si ricava una farina). A causa delle sue caratteristiche nutrizionali e dell’impiego alimentare, questo vegetale viene spesso collocato commercialmente, tra i cereali, nonostante tale classificazione sia scientificamente impropria, non appartenendo il grano saraceno alla famiglia delle Graminacee.

Grano saraceno.

E’ una pianta spontanea nelle zone della Siberia e della Manciuria. La coltura si è propagata in Cina nel X secolo e in Occidente durante il Medioevo. Ci sono diverse fonti di pensiero sul modo in cui è avvenuta la sua propagazione, ma fra tutte due risultano le più accreditate. Secondo il primo filone, i Turchi avrebbero introdotto la pianta in Grecia e nelle penisola balcanica, e da questo deriverebbe il nome grano saraceno, ossia grano dei turchi o dei saraceni. La seconda teoria sostiene che la diffusione sia avvenuta attraverso l’Asia e l’Europa del Nord ad opera delle migrazioni dei popoli mongoli che, dalla Russia meridionale, portarono il grano fino alla Polonia e alla Germania, da dove si sarebbe diffuso nel resto d’Europa. E’ probabile che entrambe le tesi siano valide e che la propagazione sia avvenuta contemporaneamente sia da Nord che da Sud.
Il grano saraceno sopporta male il freddo, e pertanto esige di essere coltivato nella stagione primaverile – estiva durante la quale esso riesce a svolgere rapidamente il proprio ciclo biologico. Per quanto nei paesi del Nord Europa questa pianta compaia come coltura principale, in Italia rappresenta soprattutto una coltura intercalare praticata dopo un cereale autunno‐invernale, come per esempio la segale o più raramente il frumento.
I semi triangolari vengono utilizzati come foraggio per animali d’allevamento, o macinati e ridotti in farina per uso alimentare. Le piante intere vengono anch’esse impiegate dagli allevatori come foraggio o lettiera per il bestiame. Inoltre, dai fiori del grano saraceno le api ottengono un miele scuro e molto saporito.
Il grano saraceno si distingue dai comuni cereali per l’elevato valore biologico delle sue proteine, che contengono gli otto aminoacidi essenziali in proporzione ottimale, mentre i “cereali veri” (il grano saraceno, a dispetto del nome, non è un cereale) contengono poca lisina. Rispetto alla farina di frumento, quella di grano saraceno è priva di glutine ed è quindi adatta per i soggetti celiaci. Il grano saraceno è una buona fonte di fibre e di minerali, soprattutto manganese e magnesio.

Polenta concia.

Da tutto questo è evidente che il grano saraceno è nostro cibo da molto più tempo che il grano turco e che la polenta di grano saraceno veniva fatta molto prima che non la polenta normale.

venerdì 1 marzo 2013

Salmone in crosta di pistacchi.

Il pistacchio (Pistacia vera L.) è un albero della famiglia delle Anacardiaceae. Può raggiungere un'altezza di ca. 12 metri e un'età di 300 anni.

Pistacchi.

È originario del Medio Oriente, dove veniva coltivato già in età preistorica, particolarmente in Persia. Gli arabi lo introdussero in Occidente. La parola "pistacchio" deriva, attraverso l'arabo (fustuaq), dal persiano (pesteh). Il termine siciliano festuca o frastuca con il quale si indica sia la pianta che il frutto prodotto, deriva direttamente dalla parola araba.
Il frutto è una drupa (cioè che, anche giunto a completa maturazione, non si apre spontaneamente per fare uscire il seme) con un endocarpo ovale a guscio sottile e duro, contenente il seme, chiamato comunemente "pistacchio" che ha colore verde vivo sotto una buccia viola.
È una specie dioica: dioico è un termine che si riferisce alla riproduzione sessuale delle piante. Indica che gli organi riproduttivi maschili (stami) e femminili (pistillo) sono portati su due piante distinte. Esistono quindi esemplari maschili e femminili della stessa specie. I fiori sono a petali e raccolti in cime. Un albero maschile può produrre abbastanza polline per fecondare fino a 10 piante femminili.

Albero di pistacchi.

Il pistacchio fruttifica in un ciclo biennale, il che, insieme alle variazioni climatiche, causa grandi variazioni nelle rese e nei prezzi.
Zone di coltivazione a rilevanza internazionale sono in medio oriente (Iran in primis ma anche Turchia e Siria, anche se quest'ultima in forte calo), in California e negli ultimi anni anche la Cina. In Italia vi è storicamente una coltivazione di nicchia, rinomati sono i pistacchi di Bronte ed Adrano alle pendici dell'Etna, tutelati dal marchio DOP "Pistacchio Verde di Bronte".
L'Italia, tuttavia è passata da una produzione di 2400 tonnellate nel 2005 a 9170 tonnellate del 2010 diventando il sesto produttore al mondo. In Grecia, la cui produzione è in calo ma si attesta anch’essa attorno alle 9000 tonnellate, si coltiva un pistacchio dal guscio quasi bianco con nucleo rosso-verde e con l'apertura del guscio simile alla varietà "Kerman", che è la varietà maggiormente utilizzata in California. La maggior parte della produzione in Grecia proviene dalla regione di Almyros.

Frutto del pistacchio.

Il frutto del pistacchio è un frutto secco dal caratteristico colore verde ed è racchiuso in un guscio rigido dall'aspetto legnoso; in commercio si possono trovare freschi oppure tostati e si prestano, oltre ad essere consumati direttamente, per la preparazione di altri alimenti, tra cui i gelati, creme, bevande, per la produzione di salumi (mortadella Bologna, ad esempio), o come condimenti per primi e secondi piatti.
I pistacchi, se coltivati in condizioni che espongono la pianta a grandi stress, possono soffrire di contaminazioni con la muffa Aspergillus flavus, che produce nei frutti la tossina insapore aflatossina. Come tutta la frutta a guscio la presenza del pistacchio negli alimenti va indicata per legge in etichetta, ciò al fine di prevenire il possibile scatenamento di una allergia alimentare.
I pistacchi sono costituiti per il 3,9% da acqua, per il 20% da proteine, 27% da carboidrati, 3% da ceneri, 10% da fibre, 27% da carboidrati, 7,60 da zuccheri e per l'1,5% da amido.
Discreta la presenza di minerali, tra cui annoveriamo: calcio, fosforo, potassio, ferro, zinco, magnesio, manganese, fluoro e rame.
Per quanto riguarda le vitamine troviamo la vitamina A, le vitamine B1, B2, B3, B5, B6, la vitamina C e la vitamina E.
Sul fronte degli aminoacidi l’arginina, l'acido aspartico e l'acido glutammico sono quelli presenti in maggior quantità, a seguire troviamo la fenilalanina, la serina e la valina.

lunedì 11 febbraio 2013

Penne con carciofi e funghi.

Carciofo di Albenga.

Il carciofo (Cynara cardunculus L. ssp. scolymus (L.) Hegi) è una pianta della famiglia delle Asteraceae coltivata in Italia e in altri Paesi per uso alimentare e, secondariamente, medicinale.
Le varietà di carciofo sono classificate secondo diversi criteri. I principali sono i seguenti:

  • In base alla presenza e allo sviluppo delle spine si distingue fra varietà spinose e inermi. Le prime hanno capolini con brattee terminati con una spina più o meno robusta, le inermi hanno invece brattee mutiche o mucronate.
  • In base al colore del capolino si distingue fra varietà violette e verdi. In base al comportamento nel ciclo fenologico si distingue fra varietà autunnali o rifiorenti e varietà primaverili. Le prime si prestano alla forzatura in quanto possono produrre capolini nel periodo autunnale e una coda di produzione nel periodo primaverile. Le seconde sono adatte alla coltura non forzata in quanto producono capolini solo dopo la fine dell'inverno.

Fra le varietà più famose si annoverano il Brindisino, il "Paestum" (carciofo IGP proveniente dall'omonima città della Magna Grecia di Capaccio-Paestum) Spinoso sardo (coltivato anche in Liguria con il nome di Carciofo spinoso d'Albenga), il Catanese, il Verde di Palermo, la Mammola verde, il Romanesco, il Mazzaferrata di Cupello, il Violetto di Toscana, il Precoce di Chioggia, il Violetto di Provenza, il violetto di Niscemi. Le varietà di maggiore diffusione in passato erano il Catanese, lo Spinoso sardo e il Violetto di Provenza, fra i tipi autunnali forzati, e il Romanesco e il Violetto di Toscana fra quelli primaverili non forzati. Lo Spinoso sardo, una delle varietà più apprezzate nel mercato locale e in alcuni mercati dell'Italia settentrionale ha subito un drastico ridimensionamento dagli anni '90 a causa della ridotta pezzatura media dei capolini e della minore precocità di produzione rispetto ad altre cultivar più precoci (Tema, Terom, Macau, ecc.).

Campo di di carciofi.

Documentazioni storiche, linguistiche e molecolari sembrano indicare che la domesticazione del carciofo (Cynara scolymus) dal suo progenitore selvatico (Cynara cardunculus) possa essere avvenuta in Sicilia, a partire dal I secolo circa.
La pianta chiamata Cynara era già conosciuta dai greci e dai romani, ma sicuramente si trattava di selvatico. A quanto sembra le si attribuivano poteri afrodisiaci, e prende il nome da una ragazza sedotta da Giove e quindi trasformata da questi in carciofo.
Nel secolo XV il carciofo era già consumato in Italia. Venuto dalla Sicilia, appare in Toscana verso il 1466. Nella pittura rinascimentale italiana, il carciofo è rappresentato in diversi quadri: "L'ortolana" di Vincenzo Campi, "L'estate" e "Vertumnus" di Arcimboldo.
La tradizione dice che fu introdotto in Francia da Caterina de' Medici, la quale gustava volentieri i cuori di carciofo. Sarebbe stata costei che lo portò dall'Italia alla Francia quando si sposò con il re Enrico II di Francia.
Luigi XIV era pure un gran consumatore di carciofi.

Pianta di carciofo.

Gli olandesi introdussero i carciofi in Inghilterra: abbiamo notizie che nel 1530 venivano coltivati nel Newhall nell'orto di Enrico VIII. 
I colonizzatori spagnoli e francesi dell'America introdussero il carciofo in questo continente nel secolo XVIII, rispettivamente in California e in Louisiana. Oggi in California i cardi sono diventati un'autentica piaga, esempio tipico di pianta invadente di un habitat in cui non si trovava precedentemente.

sabato 9 febbraio 2013

Le chiacchiere di casa mia.

Il Carnevale è una festa cattolica e inizia con la Domenica di Settuagesima e finisce il martedì precedente il mercoledì delle Ceneri che segna l'inizio della Quaresima. Il momento culminante si ha dal giovedì grasso fino al martedì grasso. Il Carnevale non ha ricorrenza fissa ma variabile e può variare da febbraio a marzo.

Maschera di carnevale.

Il periodo di carnevale è considerato dalla chiesa come un momento per riflettere e riconciliarsi con Dio. Si celebrano le Quarantore che si concludono la sera dell'ultima domenica di carnevale.
Etimologicamente le opinioni sono diverse: potrebbe derivare da Carna aval (non mangiare carne), o da Carnalia (festa romana dedicata a Saturno), o da carne levamen (digiunare), o ancora da carrum navalis (carro navale) carro allegorico su ruote che apriva la festa.
Il Carnevale ha radici antichissime: dai festeggiamenti degli Egizi in onore della Dea Iside alle "Grandi Dionisiache" greche in onore del Dio Bacco, fino ai Saturnali dell'epoca romana, in cui venivano sospese le leggi in vigore.

Festa di carnevale.

Nell'antica Roma i festeggiamenti in onore di Bacco si svolgevano lungo le strade della città e prevedevano l'uso di maschere tra fiumi di vino e danze. Poi c'era la festa di Cerere e Proserpina, che si svolgeva di notte dove tutti senza distinzioni si univano per festeggiare. Poi c'era la festa dei Saturnali, dedicata a Saturno; duravano sette giorni durante i quali gli schiavi diventavano padroni e viceversa e veniva eletto il "Re della Festa" che organizzava i giochi nelle piazze.
Questo rovesciamento delle norme ha portato alla tradizione di mascherarsi, che dura tutt'oggi ed è il tratto più caratteristico del Carnevale.
Poi iniziarono le Opalia, in onore della dea Ope moglie di Saturno, e le Sigillaria, in onore di Giano e Strenia; e in ricordo della lupa che allattò Romolo e Remo, i Lupercali che erano considerate feste della fecondità.
Ma perché a Carnevale si usa friggere? Tutti i festeggiamenti in passato chiamavano a raccolta un gran numero di persone e quindi era necessario preparare dei dolci veloci e a basso costo con l’aiuto di una bella fiamma. Da qui nasce la tradizione delle chiacchiere, delle frittelle o dei tortelli.
Tanti i carnevali italiani che sono diventati famosi e meritano una visita, come Cento, Acireale, Putignano, Ivrea, Milano...ma due spiccano su tutti: il Carnevale di Viareggio e il Carnevale di Venezia.

Carro di carnevale.

In molte città d'Italia sfilano carri allegorici con maschere e vestiti tradizionali di Carnevale. È una festa molto attesa dai bambini ma anche dai più grandi, con feste in piazza e nei locali, dove molto spesso si organizzano concorsi per premiare i costumi e i vestiti di carnevale più belli e originali.

martedì 5 febbraio 2013

Gnocchi di patate con funghi e noci.

Il noce da frutto o noce bianco è il rappresentante più conosciuto e più importante dal punto di vista economico del genere Juglans.
Reperti archeologici indicano che i frutti del noce venivano utilizzati come alimento già 9000 anni fa. Le prime testimonianze scritte risalgono a Plinio il Vecchio e Columella. Relazioni di Plinio nel suo Naturalis historia testimoniano l'importazione del noce in Europa da parte dei greci tra il VII e il V secolo a.C. dall'Asia minore.

Noci.

Infatti, ci sono riscontri sulla presenza del noce già dall'era Terziaria in Europa. A seguito delle glaciazioni, alcuni esemplari sono riusciti ad arrivare nel bacino del Mediterraneo. Dunque, l'areale di distribuzione del noce nell'età quaternaria si estendeva dalla penisola balcanica fino all'Asia centrale. Sono ancora oggi presenti dei caratteristici boschi puri di noce in Kirghizistan, sulla catena montuosa Tien Shan. 
Il noce è stato introdotto in Europa tra il VII e il V secolo a.C. e in America nel XVII secolo da coloni inglesi. Il noce è una pianta cosmopolita ed è presente in quasi tutti gli ambienti temperati. Le nazioni che vantano una buona presenza di Juglans regia sono la Francia, la Grecia, la Bulgaria, la Serbia e la Romania in Europa; la Cina in Asia; la California (maggior produttore mondiale di noci) in America settentrionale e il Cile in America latina. Ultimamente si è diffuso anche in Nuova Zelanda e nella parte sud-orientale dell'Australia. In Italia, in particolare nella zona della pianura padana settentrionale, essa è divenuta specie spontanea.

Noce.

Il noce comune (Juglans regia) tollera bene suoli debolmente acidi e calcarei, mentre il noce nero (Juglans regia) necessita di terreni freschi e leggermente acidi. Il noce è un albero di facile coltivazione, ma il terreno su cui è coltivato deve essere ricco di sostanza organica. Bisogna prestare particolare attenzione all'apporto idrico nel mese di giugno, perché, in caso di mancanza d'acqua, i frutti risulteranno piccoli. L'acqua in tarda primavera è fondamentale anche perché è il momento dell'induzione fiorale (i futuri fiori dell'anno successivo). Siccità o gelate tardive in questo momento comprometterebbero il raccolto dell'anno successivo. Gli alberi coltivati sono innestati e cominciano a produrre al quinto-sesto anno. Sono in piena produzione dal 25º anno ai 70 anni. Il noce nero è talvolta usato come portainnesto perché resiste alla muffa soprattutto nelle zone umide. 
Il noce produce lo juglone che, per allopatia, risulta tossico per altre specie di piante e non ne permette la crescita nei pressi del noce.

Fiore femminile del noce.

Tra le varietà di interesse generale vi sono:

mercoledì 30 gennaio 2013

Ravioli di magro con salsa alle noci.

I ravioli di magro (con ricotta e spinaci) sono abbastanza semplici da fare e possono essere consumati con molti intingoli o salsine diverse. Ho trovato, sul sito di Giallo Zafferano, la ricetta di questa salsa alle noci che ho utilizzato per i ravioli di magro preparati qualche giorno fa.

Ravioli di magro con salsa alle noci.

Ingredienti (per 60-70 ravioli) 
Per la sfoglia all’uovo: 
400 g di farina tipo “0”;
4 uova intere (da 60-70 g/cad);
½ cucchiaino di sale.
Per il ripieno dei ravioli: 
300 g di ricotta;
300 g di spinaci surgelati;
100 g di formaggio grana grattugiato;
1 generosa grattata di noce moscata;
Sale e pepe q.b.
Per la salsa di noci: 
250 g di noci;
250 ml di latte;
 ½ bicchiere di olio EVO;
40 g di mollica di pane;
40 g di formaggio grana grattugiato;
30 g di pinoli;
1 spicchio d’aglio;
1 rametto di maggiorana (va bene anche secca);
Sale q.b.

domenica 13 gennaio 2013

Le cartellate di famiglia.

Le cartellate (nella zona del barese carteddàte o scartilléte, o péttue oppure chelustre o ancora sfringioli, nel foggiano crùstele, nel salentino cartiddate), sono dei tipici dolci originari della Puglia e prodotti anche nelle regioni limitrofe (nèvole in Calabria e rose o crispedde in Basilicata).
Preparate soprattutto a Natale, nella tradizione cristiana rappresenterebbero l'aureola o le fasce che avvolsero il Bambino Gesù nella culla, ma anche la corona di spine al momento della crocifissione.
Il nome potrebbe derivare da carta, incartellate, cioè sinonimo di incartocciate, secondo la loro tipica forma arabesca.

Cartellate pugliesi.

Tra le varie ipotesi sia il dizionario Saracino sia il Nobile fanno derivare la parola dal greco κάρταλλος (kartallos) = cesto o paniere a forma puntuta.
Esse vengono raffigurate la prima volta in una pittura rupestre del VI secolo a.C. rinvenuta nei pressi dell'attuale Bari in cui viene rappresentata la preparazione di un dolce assai simile chiamato la lanxsatura: il piatto colmo era offerto agli Dei secondo il culto di Cerere, di probabile origine greca e associato alle offerte fatte a Demetra, dea della terra, durante i misteri Eleusini.
Agli albori del Cristianesimo, queste frittelle rituali si sarebbero trasformate in doni alla Madonna, cucinati per invocarne l'intervento sulla buona riuscita dei raccolti.

Sfogliatrice manuale

Le cartellate sono, inoltre, citate come Nuvole et procassa in un resoconto del 1517, stilato in occasione del banchetto nuziale di Bona Sforza, figlia d'Isabella d'Aragona e nel 1762 in un documento redatto dalle suore benedettine di un convento di Bari. Non esistono storie o leggende a riguardo.
La preparazione avviene componendo nastri di una sottile sfoglia di pasta, ottenuta con farina, olio e vino bianco, unita e avvolta su se stessa sino a formare una sorta di "rosa" coreografica con cavità e aperture, che poi verrà fritta in abbondante olio.
Ne esistono numerose varianti, ma la ricetta tipica regionale è quella che le vede impregnate di vincotto tiepido o di miele, e poi ricoperte di cannella, zucchero a velo oppure mandorle. Il vincotto è un condimento derivante dalla cottura del mosto proveniente dalle uve salentine Negro amaro e Malvasia o dai fichi.

Cartellate pugliesi

Altre varianti le vedono con il cioccolato al posto del vincotto, oppure semplicemente lo zucchero a velo. Una volta preparate si conservano in grossi tegami, lontane dalla luce e in ambienti interni.

Mia madre è originaria della provincia di Foggia e a Milano risiedono anche molti parenti di vario grado. Sin da bambino (praticamente dal Giurassico), durante il periodo natalizio, nelle visite a amici e parenti, tra le varie leccornie (rigorosamente tipiche pugliesi) non mancavano mai le cartellate.
Ognuno le preparava secondo la propria ricetta di famiglia: chi usava per l’impasto solo farina e chi una miscela di farina e semola di grano duro; chi usava, sempre nell’impasto, il vino bianco secco, chi invece metteva del vino dolce; chi usava, per guarnire, il vincotto di mosto, chi quello fatto con i fichi, altri semplicemente il miele e così via.
Io non sono goloso ma, da sempre, in qualsiasi modo fossero preparate le cartellate avrei potuto (e potrei) mangiarne dosi industriali; ho sempre amato il loro sapore dolce e leggermente asprigno che il vincotto conferiva a questo fantastico dolce del periodo natalizio.
Con il passare degli anni, molte abitudini si sono un poco perse: gli anziani, purtroppo, se ne sono andati, molti si sono trasferiti altrove ma le cartellate, nella mia famiglia, sono e resteranno, un’abitudine natalizia irrinunciabile.
Anche quest’anno (come tutti gli anni) con mia sorella abbiamo preparato questo splendido dolce seguendo la ricetta di famiglia (sempre la stessa).

Cartellate di famiglia

Ingredienti.
1 kg di farina tipo "00";
1 cucchiaino di sale;
100 ml di olio EVO;
Olio di semi d'arachide per friggere;
Vincotto di mosto pugliese (circa 1 litro per 1Kg di farina);
Vino bianco secco  q.b. per ottenere un impasto liscio e morbido.

1 - Preparazione.
Miscelare alla farina l’olio evo e il sale (1). 
Impastare il tutto, aggiungendo, poco alla volta, il vino bianco ottenendo un impasto di media consistenza (2).


Continuare a lavorare l’impasto con le mani, sino ad ottenere un impasto liscio e morbido (3). Lavorare più volte con una sfogliatrice, manuale o elettrica sino ad ottenere una sfoglia, morbida e liscia, dello spessore di 1 mm (4).
Dividere la sfoglia in strisce larghe 2-3 cm. lunghe 30-40 cm. (5).


Unire, pizzicando con il pollice e l’indice (6), i lembi di ogni striscia ad una distanza di 3-4 cm. e arrotolare la striscia, sino ad ottenere una rosetta di 6-8 cm di diametro (7). 
Lasciare asciugare (8), coperte con un panno pulito, per 4-6 ore (meglio sarebbe per 12 ore).


2 – Cottura. 
In un padella larga e profonda, aggiungere l’olio di semi e portarlo a bollore.Friggere le cartellate immergendole nell’olio sino a leggera doratura da entrambi i lati (9); cuocere le cartellate poche per volta. Adagiare le cartellare, con il fondo rivolto verso l’alto, su carta assorbente e far asciugare bene. 

3 – Finitura. 
In un padella larga e profonda, aggiungere il vincotto e portare quasi a bollore. Nel caso in cui il vincotto fosse troppo denso, diluirlo con un poco di vino bianco. 
Immergere le cartellate nel vino cotto rigirandole 2 volte (10).
Toglierle dal vino cotto, scolarle e posizionarle in una teglia, con il fondo verso il basso (11) .


Quando saranno fredde, utilizzando un cucchiaio, distribuire altro vino cotto sopra le cartellate. 
Consumarle dopo 1 giorno di riposo (12).

(*) Per meglio capire la procedura di composizione della cartellata, tornerà utile guardare questo breve video.